La cultura del piagnisteo – Recensione e non solo

…In questo e in una dozzina d’altri modi veniamo creando un’infantilistica cultura del piagnisteo, dove c’è sempre un Padre-padrone a cui dare la colpa e dove l’ampliamento dei diritti procede senza l’altra faccia della società civile: il vincolo degli obblighi e dei doveri…
Autore: Robert Hughes
Anno: 2003, 7ª ediz.
Pagine: 242
Casa Editrice: Adelphi
Disponibilità: Versione cartacea e digitale
Dove acquistarlo: Adelphi

È da anni che dentro di me cresce un sentimento di distanza, quasi di estraneità, nei confronti della sinistra contemporanea. Quella che io, forse con un po’ di rabbia ma anche con molta lucidità, definisco “sinistra woke”: una caricatura identitaria e autoreferenziale, ben lontana dalla sinistra sociale, concreta, popolare, che ho sempre sostenuto. Intuivo da tempo cosa stesse accadendo, ma non trovavo le parole. Poi ho letto La cultura del piagnisteo di Robert Hughes, e tutto è diventato chiaro.

Questo libro, pubblicato nei primi anni ’90, è stato una rivelazione. Non solo per la lucidità con cui descrive fenomeni oggi sotto i nostri occhi, ma perché li anticipa con tale precisione da far venire i brividi. Una delle intuizioni più potenti del libro è che la nostra società ha imparato a fabbricare vittime. Vittime vere o presunte, purché servano a costruire una narrativa in cui esista un unico nemico comune e riconoscibile: il maschio bianco, eterosessuale e benestante. È lui la figura da odiare, da ridicolizzare, da rieducare, non importa chi sia, cosa faccia o cosa pensi. L’importante è che esista come simbolo da abbattere. Hughes, con ironia e lucidità, smonta anche la retorica dell’antifascismo tossico, scrivendo: Fascista ormai evoca così tanti piani di indistinta denuncia da aver perso il suo significato. E oggi vediamo quanto aveva ragione. Chiunque esprima un’opinione non allineata al dogma progressista rischia di essere bollato come fascista, reazionario, transfobico, razzista o non inclusivo, anche solo per aver posto una domanda.

Un altro punto centrale del libro è l’attacco al feticismo linguistico, all’illusione che cambiare le parole basti a cambiare la realtà. Hughes denuncia già trent’anni fa i rischi del politicamente corretto portato all’estremo, soprattutto nella lingua. Scrive, in modo profetico: E non oso immaginare il caos che nascerebbe se nelle lingue romanze, dove ogni sostantivo è maschile o femminile – e dove per giunta l’organo genitale maschile ha spesso un nome femminile e viceversa (la polla / el coño) –, accademici e burocrati decidessero di buttare a mare i vocaboli di genere definito. Quel caos, caro Robert, è arrivato eccome. E con tutto il corredo di schwa, asterischi e sintassi destrutturate che confondono più che includere. Nessuna sostituzione di parole è in grado di ridurre il tasso di intolleranza presente in questa o in qualunque altra società, scrive ancora Hughes, è invece in grado di accrescere quelli che in gergo militare si definiscono limpidamente “danni collaterali in una zona ricca di bersagli”.

La sinistra woke non ha solo perso il contatto con la realtà: ha perso l’anima. L’ossessione per la forma ha oscurato i contenuti, la teoria ha sostituito l’analisi, e il culto dell’identità ha cancellato la questione di classe. Come scrive Hughes: La sinistra accademica è molto più interessata a questioni di sesso e razza che non di classe; ed è di gran lunga più dedita a teorizzare sulla razza e sui sessi che non a farne una seria analisi. Ed è così che i populisti, oggi, non hanno nemmeno più bisogno di essere populisti. Basta l’antipatia prodotta dalla sinistra stessa per farli vincere. Il giorno in cui ci verrà detto che non si può più usare la parola “infinocchiare” per non offendere gli omosessuali, come ironizza Hughes, la sinistra sarà diventata talmente irritante, talmente sgradevole, da rendere superflua perfino la campagna elettorale della destra. Non serviranno più programmi, visioni, proposte. Basterà aspettare che la sinistra parli da sola.

La sinistra del piagnisteo inoltre si comporta ormai come una setta. O stai con loro, o sei contro di loro. O ripeti a memoria la narrativa del giorno e sventoli la bandiera giusta, o verrai marchiato, cancellato, isolato. Le parole d’ordine sono sempre le stesse: violento, discriminatorio, non inclusivo e, ovviamente, fascista, etichette appiccicate a tutto ciò che non rientra nella cornice ideologica prestabilita dalla setta. Non è più possibile dissentire senza pagarne le conseguenze e non si guarda più in faccia nessuno. Puoi essere un amico, un collega, un artista, un familiare: se non reciti la parte prevista dalla sceneggiatura woke, sei fuori. Punto.

È una sinistra che non perdona, nemmeno i suoi. Lo sa bene J.K. Rowling, che ha osato dire che l’essere femminile è legato al ciclo mestruale, un’affermazione ovvia come dire che 2+2 fa 4 o che la Terra non è piatta. Ma è bastata questa frase per essere bollata come transfobica, omofoba, reazionaria, e bandita perfino dagli eventi dedicati ad Harry Potter. Si prende in giro chi si confessa in chiesa per sentirsi più buono, ma allo stesso tempo ci si sente più virtuosi sventolando la bandiera LGBTQIA+ senza nemmeno sapere cosa significhi il segno “+”. La sinistra woke ha ridotto l’inclusività a un badge identitario, e l’esclusione degli altri come regola implicita.

Uno degli aspetti più pericolosi del piagnisteo woke è la sua selettività storica. Non si parla mai, ad esempio, del razzismo perpetrato da neri contro altri neri, o delle complicità africane nella tratta degli schiavi. Hughes non ha paura di scriverlo: Il commercio degli schiavi africani fu un’invenzione musulmana, sviluppata dai mercanti arabi con l’entusiastica collaborazione dei loro colleghi negri, e istituzionalizzata con la più spietata brutalità secoli prima che l’uomo bianco mettesse piede sul continente africano. Ma questa parte di verità è scomoda, quindi si evita. Si preferisce censurare parole, riscrivere libri, edulcorare contenuti. Roald Dahl è solo l’ultimo esempio di questa ossessione per la “pulizia linguistica”. Oggi si cambia tutto: parole, contesti, intenzioni. Domani, forse, anche la punteggiatura.

E pure l’arte viene piegata all’ideologia. Hughes lo dice chiaramente: Invece di focalizzarsi su un problema, ci si focalizza su come gli artisti parlano del problema. Qui risulterò ancora più impopolare, ma basta guardare i centinaia di post su Gaza che criticano gli artisti che non seguono la narrativa. Magari si distruggono Jovanotti e Tom Yorke mentre si fa un ordine su Amazon ascoltando musica su YouTube, ignorando di proposito il ruolo che proprio Amazon e Google hanno avuto in questo orrendo pezzo di storia. Siamo all’ipocrisia allo stato puro.

Hughes, come me, non odia il progresso, odia la farsa del progresso. Non è contro i diritti, ma contro la loro strumentalizzazione. La cultura del piagnisteo è un libro che non invecchia perché descrive con precisione chirurgica i meccanismi della società vittimista, e ci ricorda che non si costruisce una società giusta attraverso la censura, l’ipocrisia, o l’esclusione travestita da inclusione. Se la sinistra vuole davvero tornare a essere una forza di cambiamento, dovrà fare pace con il buon senso, recuperare il contatto con il mondo reale e smettere di parlare solo a sé stessa. Finché continuerà a impantanarsi nel piagnisteo, la destra non avrà nemmeno bisogno di vincere: le basterà, appunto, aspettare la prossima furbata woke.

12 commenti

  1. Ti scriverò con calma. La cosa che mi stupisce è che il libro sia stato scritto negli anni 90! Caspita! La cosa che molti ancora a sinistra non hanno compreso è che dietro il woke, esiste lo stesso meccanismo psicologico dei “miti” di destra: il vittimismo e un vago nemico, più che altro di derivazione pseudosocioligica, giusto per avere un manto un pò più accademico rispetto alla mitologia più naif dei destrorsi. Tutto lì. I danni di questa “bipolarizzazione” sono incalcolabili.

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  2. Ciao Alessandro, come stai? Questo saggio l’ho segnato come: obbligatoriamente da leggere. Appena lo trovo lo passerò al setaccio. Te ne segnalo uno più recente: la Trappola Identitaria, sullo stesso tema. Credo che entrambi i saggi, questo da te recensito e quello da me segnalato, pongano l’accento sulle origini parareligiose tipicamente di matrice nord americana, del politicamente corretto prima e del Woke dopo. Ma ti dirò dopo averli letti. Io sono convinto, che questa corrente di pensiero parareligioso, sia entrata nell’accademia, e lì abbia trovato una sorta di battesimo “scientista” per essere inattaccabile. In realtà nell’accademia, come spesso accade per ignavia, nessuno si sia opposto. Quando poi l’argomento è diventato di moda, come spesso accade nelle accademie e non solo, per non passare per retro, trogloditi, fascisti, terroni a prescindere, data la polarizzazione, nessuno a più opposto resistenza. Ho frequentato per 14 anni il mondo universitario… conosco bene l’ambiente. Per questo, appena qualcuno, solleva qualche obiezione, anche alla pretesa di rendere tutto misurabile, matematicizzabile, componibile in una equazione, e tu fai notare che non è il caso, specie per materie fuori da ambito strettamente STEM (io toglierei alla stragrande anche la E), ti arriva il complottaro. Di lì il mio elogio sbilenco per uno dei libri di Taleb (Antifragile). Ho deragliato un pò, ma credo che mi capirai. Buona fine di estate.

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    • Ciao Fritz, io sto bene, grazie. Spero anche tu! Grazie per la segnalazione, cercherò quel saggio.
      Tieni presente che la mia rabbia è alimentata anche dalla mia esperienza professionale, che si sviluppa nel mondo accademico, dove in questo momento mi sento piuttosto solo. Purtroppo, c’è un clima in cui si preferisce tacere su tutto, per timore delle conseguenze. E io, francamente, non posso permettermi di fare la fine della Rowling.

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      • Piena comprensione. Infatti ho capito che sei uno dei pochi nell’accademia, che ha deciso di prendere la cosa non in maniera religiosa. Conosco l’Accademia e il suo ambientino. Riguardati. Io sono convinto che queste sono delle mode. Negli USA, dopo 8 anni di assenza, vi sono tornato qualche settimana fa, la bolla si sta completamente ridimensionando (almeno nella zona centrale) e Trump non ne è la causa, ma la conseguenza.

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          • Ora ne vediamo il picco in Italia. Ma secondo me, in Italia ha iniziato a girare nella accademie nei primi anni 10. Poi è sortita nel mondo culturale (letterario soprattutto) intorno al 2015, dopodiché è diventata parte dalla cultura nazionale popolare dopo che ci hanno chiuso in casa per il Covid, dove ognuno per un anno, si è connesso quasi 12h/24 allo smartphone, e a seconda dei vissuti di partenza, ha cercato contenuti che rafforzassero proprie convinzioni, bias, rabbie, paure… in parte queste rabbie e paure sono state alimentate dalla sospensione di quei 5 mesi, soprattutto per via della connessione continua. Dal tuo post, ci capisce che questo mood, negli USA è iniziato 15 anni prima (deterei intorno a metà anni 90) almeno a livello accademico. In Italia si sgonfierà tra circa 10 anni. Quando una nuova moda parareligiosa ne prenderà il suo posto.. non sapremo se con alle spalle un avvallo accademico oppure un avvallo totalmente populista. Al momento comunque in Italia, credo abbia avuto più difficoltà di circolazione, rispetto agli USA, anche perché contrastato da forti revanchismi populistici e per certo spirito cinico-razionale che come mediterranei dimentichiamo di avere.

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