Le otto montagne – Recensione

…In quel punto il vallone si chiudeva, come se un’immensa frana l’avesse tappato a monte, e terminava in una conca intrisa d’acqua, tutta percorsa da rigagnoli e infestata da felci, cespugli di rabarbaro e ortiche…
Autore: Paolo Cognetti
Anno: 2018
Pagine: 200
Casa Editrice: Einaudi
Disponibilità: Versione cartacea e digitale
Dove acquistarlo: Amazon

Il mio complicato rapporto con il Premio Strega mi tiene costantemente in equilibrio tra il desiderio di leggere i suoi vincitori e il bisogno di rinnegarli. Di solito vince il ripudio, alimentato dai tanti post di persone che seguo e che lo snobbano con una sicurezza invidiabile. Ma a volte cedo alla lettura, per colpi di ispirazione improvvisi (come accadde con Caos calmo) o per colpa di circostanze esterne, tipo il mio gruppo di lettura che ha scelto Le otto montagne.

E quindi eccomi qui, immerso tra alberi, torrenti e cime innevate, mentre l’autore mi racconta con un’eleganza disarmante (questo lo devo ammettere prima di iniziare con gli attacchi) quanto sia meravigliosa la natura e quanto siano felici quelli che la vivono. Molto bene, ma la storia? Arrivo al 17% (ho la versione digitale che mi permette di quantificare l’agonia) e mi chiedo: succederà mai qualcosa? Per ora solo amicizie che nascono, dialoghi armoniosi e la conferma che Cognetti sa scrivere bene. Peccato che anche i dialoghi girino sempre attorno alla natura, alla bellezza della natura, alla gioia della natura. Natura, natura, natura. Al 25% la storia non è ancora pervenuta. Mi sembra di essere intrappolato in una bellissima introduzione a qualcosa di meraviglioso che però non arriva mai. La sensazione è un po’ quella di guardare uno degli ultimi film di Wes Anderson: esteticamente impeccabile, ma dopo un po’ mi chiedo perché lo sto guardando.

Però non mollo, anche se ormai ho assistito alla ventottesima risalita di un torrente. Qualche sprazzo di narrazione ogni tanto appare, ma si tratta di amicizie giovanili all’avventura tra montagne e ruscelli, roba già letta nei libri di Twain. Qui, tra l’altro, gli alberi hanno più spessore psicologico dei personaggi. A tratti qualche aneddoto riesce persino a svegliarmi dal torpore, ma poi anche la prosa, unica cosa davvero godibile del libro, inizia a perdere brillantezza, come se persino l’autore si fosse stancato. Arriviamo così in Nepal, ma potrebbe essere l’Aspromonte o le Highlands scozzesi, tanto il coinvolgimento emotivo è lo stesso: nullo. Il colpo di grazia. Era dai tempi de Il cardellino che non leggevo un vincitore di un premio prestigioso così piatto.

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